Jorge Juary, ora responsabile della Santos Academy di Bellizzi Irpino, si è raccontato in una lunga intervista a Itasportpress. "Alla fine torno sempre ad Avellino, ho girato tante squadre e tante città. Ma il legame è quello del primo impatto. È stata la prima città che ho conosciuto dopo l’aeroporto di Roma (ride ndr.). Ho passato bei momenti qui. Mi sento un irpino. Anche perché, dopo il periodo del terremoto vissuto insieme, ho visto la forza di questa gente. Quella vicenda mi ha ricordato ciò che avevo sofferto in Brasile. Ho capito con loro l’importanza dell’amore per la terra, per gli amici, per la società. Il calcio è stato una via di fuga. La gente ha capito che aveva la luce grazie a noi. Potevamo rifarci con il calcio e regalare ai tifosi qualche soddisfazione. Ne è venuta fuori un’annata straordinaria. Credo che non sentivamo questo peso. Quando andavamo al campo, il discorso era sempre quello. Volevamo vincere a tutti i costi e il prima possibile. Tra l’altro avevamo una penalità di cinque punti (comminata dopo lo scandalo calcioscommesse ndr). Ogni settimana facevamo il countdown per vedere quanto ci mancava per poter pareggiare lo zero.
Sono tornato perché ho questo incarico con la scuola del Santos. Abbiamo preso l’esclusiva di questa scuola calcio in Portogallo, Italia e Francia. Abbiamo trovato un accordo per poter lavorare con i ragazzi. Ho già allenato i grandi in passato, anche in Brasile, ma adesso non sono allenatore. Preferisco essere coordinatore tecnico. Ad Avellino cerco di dare una mano. I ragazzi hanno margini di crescita ancora grandi. Non si sentono ancora arrivati. Hanno la voglia di imparare e questo è un elemento che mi piace".
Poi i ricordi di Avellino: "Era il primo anno delle frontiere aperte per i giocatori stranieri. Ricordo di aver guardato il sedile e di aver avuto paura. Pensavo a dove ero finito. Poi devo ammettere che sono stato agevolato perché il nostro allenatore ci ha fatto imparare in fretta la lingua e i movimenti sul campo. Mi sono trovato bene e mi sono inserito, mi hanno accettato all’interno della città. In squadra quasi tutti erano giovani, ma non mancavano i senatori. L’impatto col calcio è stato meno doloroso. La prima volta avevo paura. Avevo paura della gente, perché non riuscivo a giocare e ad adattarmi. Prima di venire in Italia avevo giocato in Messico, imparando a essere lontano da casa. Quell’esperienza mi è tornata utile quando mi sono trasferito ad Avellino.
Preciso che l’esultanza (il giro intorno alla bandiera, ndr) è nata un giorno in Brasile. L’ho fatta per la prima volta in una sfida contro il San Paolo, quando giocavo nel Santos e poi l’ho importata in Italia. Ma quasi nessuno lo sapeva perché non c’erano tanti modi per conoscere il calcio brasiliano. Credo ci fosse un solo canale che trasmetteva il meglio delle partite nel Sud America. Però c’era la percezione di avere a che fare con un calcio d’un altro mondo. Per quanto riguarda l’esultanza, è stato bello ripeterla in Italia. Sì, ammetto che qualcuno tra i miei compagni si è spaventato, pensava che fossi pazzo. Gol piu' significativo? Direi il primo gol che ho segnato in Serie A, contro il Catania. Lì mi sono sbloccato. Mi ha dato la certezza che avrei potuto far bene e che avrei conquistato la gente definitivamente.
Più difficile segnare in un derby come quello storico tra Napoli e Avellino o in una finale di Coppa dei Campioni? Sono due cose diverse, con momenti differenti. Il primo è avvenuto un derby campano con uno stadio pieno. E poi il derby è il derby, dunque segnare è più bello. Tra l’altro avevamo perso uno scontro diretto con loro in una partita un po’ particolare nella stagione precedente, quindi l’anno dopo ci siamo rifatti (vinse l’Avellino con un netto 3-0). Comunque il vero derby campano è quello tra Avellino e Napoli, non c’è dubbio”.
Autore: Domenico Fabbricini / Twitter: @Dfabbricini
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