Resta il rammarico di essere arrivati a un passo dalla finale playoff. Un obiettivo che l'Avellino avrebbe meritato, per quella capacità di resistere ai colpi degli avversari e del Covid, che in due riprese ha aggredito i lupi, bravi e tenaci nel rimettersi in piedi strappando il terzo posto in classifica, mancando di un soffio il secondo, ma tenendo dietro la corazzata Bari e altre squadre sulla carta più forti, come Catania e Teramo, o la Juve Stabia dei record in trasferta.
Resta il rammarico, ma c'è pure tanta riconoscenza nei confronti di un gruppo che aveva il compito di ripristinare l'entusiasmo sopito dei tifosi, delusi e offesi dai guai giudiziari della gestione Sidigas, dal disastroso interregno IDC, e da una stagione in chiaroscuro interrotta dal Covid. Missione compiuta.
E il principale artefice di tutto questo si chiama Piero Braglia. Il tecnico di Grosseto è sceso in Irpinia con un curriculum impressionante e promozioni in Serie B come biglietto da visita. Ha accettato di allenare una squadra inesistente (appena due riconfermati della passata stagione), un gruppo esiguo, striminzito plasmandolo a sua immagine e somiglianza.
Erano in 12 (giovani compresi) il 24 agosto, al primo giorno di ritiro a Sturno. Di questi soltanto Forte, Rocchi, Marco Silvestri e Laezza hanno fatto parte della sua rosa. Il mercato, prolungato fino a ottobre, è iniziato ad andamento lento, per giorni Braglia ha chiesto insistentemente rinforzi arrivati alla spicciolata: mentre le altre squadre già affrontavano le prime amichevoli, l'Avellino era un cantiere in costruzione. Alcuni obiettivi sfumati (Corazza, Mungo, Bruccini, Scognamillo...) lo hanno fatto infuriare, "qui si allenano in nove" urlò al telefono, con un interlocutore rimasto sconosciuto (forse Di Somma?), mentre lo start del campionato si avvicinava prepotentemente.
Ha perso Laezza nell'ultimo test pre-campionato, poi sul 3-5-2 ha costruito, mattone dopo mattone, una squadra solida e pragmatica, che al netto di tre, quattro battute a vuoto (Bari, Terni, Catanzaro e Catania in casa), ha tenuto testa alle corazzate, tenendosi alle spalle il Bari, vedendo sfumare in extremis il secondo posto. Con il materiale a disposizione, con poche alternative ai titolari, un centrocampo composto da sciabolatori più che da fiorettisti, senza esterni offensivi (ma con un Tito assist-man di lusso) e privo di un vero bomber, Braglia ha trasformato un insieme di buoni giocatori in una squadra arcigna, capace di scalare gerarchie e arrivare fino a mezzo metro dalla finale playoff, piegata da un Padova stellare, ma insofferente di fronte al carattere e alla personalità del lupo di Braglia.
Ora ci si domanda: quale futuro per il maremmano? Il contratto scade il 30 giugno, finora non si è discusso di rinnovo e la sensazione fino al triplice fischio del match col Padova è che le parti dovessero salutarsi. Invece Braglia, nel post-gara, ha parlato di futuro, di una base solida dove costruire la prossima stagione. Resterà ad Avellino? Chissà, intanto gli concediamo i meriti di una stagione più che positiva, andata oltre le più rosee aspettative. E onestamente, oggi si fa fatica a pensare a un Avellino senza Braglia in panchina.
Autore: redazione TuttoAvellino / Twitter: @tuttoavellinoit
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