Juary Jorge dos Santos Filho non avrebbe mai immaginato che il viaggio più importante della sua carriera iniziasse con una bugia. Nell’estate del 1980, mentre il Brasile si accende per i dribbling di Zico, la Serie A riapre le frontiere agli stranieri dopo quattordici anni. Le società possono finalmente tesserare giocatori provenienti dall’estero e, mentre le grandi squadre si muovono con cautela, le provinciali fiutano l’occasione.
L’Avellino è una di queste. Dopo due stagioni sofferte, il club irpino cerca rinforzi per consolidare la sua permanenza nella massima serie. La dirigenza punta un giovane attaccante brasiliano del Santos, uno di quei talenti che in patria faticano a emergere sotto l’ombra dei fuoriclasse. Juary ha 21 anni, è rapido, guizzante, gioca con il pallone incollato ai piedi. In Brasile lo conoscono per il suo dribbling imprevedibile e per un’innata capacità di infilarsi negli spazi con leggerezza.
Ma c’è un problema: Juary non sa di essere stato acquistato.
Il suo procuratore gli ha parlato di un’occasione in Europa, gli ha descritto un calcio fatto di stadi imponenti e folle in delirio. Quando sale sull’aereo, nella sua testa ci sono immagini di Milano, Roma. San Siro, l’Olimpico, i grandi palcoscenici. Poi sente qualcuno pronunciare il nome della sua destinazione: Avellino.
Si gira verso il suo agente, confuso. Dove cazzo sta Avellino?
Lui sorride, cerca di tranquillizzarlo. Ma Juary si rende conto che qualcosa non torna. Quando atterra, non ci sono flash, non ci sono telecamere, non ci sono giornalisti. Solo una città incastonata tra le montagne dell’Irpinia, con strade strette e un cielo spesso grigio. Il suo sogno di una metropoli europea si frantuma in un luogo che sembra lontanissimo da tutto.
Per Juary è uno shock. È lontano dalle spiagge del Brasile, dai vicoli polverosi di São João de Meriti, nella periferia di Rio de Janeiro, dove è cresciuto giocando a calcio con palloni di stracci. La città lo accoglie con scetticismo: chi è questo ragazzino venuto da così lontano? Può davvero fare la differenza?
Nei primi giorni si sente solo. Cammina per Avellino senza riconoscere nulla, senza riuscire a orientarsi. Non sa ancora che sta per vivere qualcosa che cambierà per sempre il suo rapporto con quella terra.
La notte che cambiò tutto
Il 23 novembre 1980, Avellino trema. Alle 19.34, un boato sordo squarcia il silenzio della sera. Poi la terra si muove. Gli edifici ondeggiano come se fossero di carta, le strade si aprono, la gente urla. È un terremoto devastante, 6,9 gradi della scala Richter. L’epicentro è nei paesi dell’Irpinia interna – Sant’Angelo dei Lombardi, Lioni, Conza della Campania – dove interi quartieri crollano e si contano migliaia di vittime.
Anche ad Avellino la paura è ovunque. Juary è nella sua abitazione quando sente il pavimento oscillare. Esce in strada insieme agli altri, mentre la città si riempie di sirene, urla, polvere. Nei minuti successivi, il buio è totale: la corrente salta, le comunicazioni si interrompono. Nessuno sa ancora l’entità del disastro, ma tutti sanno che nulla sarà più come prima.
Nei giorni successivi, Juary cammina per la città distrutta. Vede gente scavare con le mani tra le macerie, famiglie che dormono all’addiaccio, uomini e donne che si stringono in un dolore collettivo. È un ragazzo di 21 anni arrivato da un altro continente, eppure per la prima volta sente di appartenere a quel luogo. “Ancora oggi piango se ci penso,” dirà anni dopo. “Lì ho capito cosa significava essere avellinese.” Da quella notte, Juary non è più un brasiliano di passaggio.
Irpinia verdeoro
L’Avellino degli anni ’80 non è una squadra da spettacolo, ma da battaglia. Il suo obiettivo non è vincere, ma sopravvivere in Serie A, strappando salvezze sofferte con un calcio duro, fisico, fatto di marcature feroci e contrasti al limite del regolamento. Niente poesia, niente fronzoli. Il calcio qui è come la terra: aspro, resistente, poco incline all’improvvisazione.
E poi c’è Juary. Un brasiliano che non gioca come gli altri. Quando prende palla, accelera, sterza, improvvisa. Il suo calcio è ritmo, istinto, leggerezza. Gli avversari lo temono, i compagni lo guardano con diffidenza. Uno così può davvero funzionare in una squadra come l’Avellino?
L’impatto con il calcio italiano è durissimo. Gli allenatori chiedono disciplina tattica, ma lui è un anarchico del pallone. A volte parte in serpentina senza guardare nessuno, altre volte sembra perdersi, come se avesse dimenticato dov’è. I difensori lo aspettano al varco. In un’epoca in cui i falli non si fischiano con leggerezza, Juary viene randellato ad ogni partita. Calcioni, gomitate, tackle a forbice. Lui si rialza sempre, ma ogni domenica è una battaglia.
Poco a poco, la città inizia ad amarlo. Non solo perché dribbla, ma perché lotta. Non si lamenta mai, non risponde alle provocazioni, si rialza sempre. E poi c’è la sua esultanza. La prima volta che segna con la maglia dell’Avellino, nessuno sa cosa aspettarsi. Non festeggia sotto la curva, non alza le braccia al cielo. Corre verso la bandierina del calcio d’angolo e inizia a girarle attorno, veloce, come un bambino in un cortile.
Lo stadio Partenio esplode. Non hanno mai visto una cosa del genere. Quel gesto diventa immediatamente il suo marchio. Ogni gol è un rito, una corsa liberatoria, un inno alla gioia in un calcio che spesso si prende troppo sul serio.
Juary non è un bomber implacabile, ma è un giocatore che si fa ricordare. Nella prima stagione segna 5 gol, nella seconda 4. L’Avellino si salva entrambe le volte. E il brasiliano che all’inizio non sapeva neanche dove fosse finito, diventa un simbolo della città.
Il sogno infranto
Nel 1982, la chiamata che ha sempre sognato finalmente arriva. L’Inter decide di puntare su di lui. È la grande occasione: lasciare Avellino, entrare in una squadra che gioca per vincere, competere per lo scudetto. Juary si sente pronto. Ha mostrato di poter reggere il calcio italiano. Non è solo un funambolo da spiaggia.
Ma Milano non è Avellino. Qui il calcio è più freddo, più schematico, più gerarchico. L’Inter ha appena chiuso un campionato mediocre e cerca una svolta, ma l’inserimento di Juary è complicato fin dall’inizio. L’allenatore Rino Marchesi, abituato a un calcio rigoroso, non sa come utilizzarlo. In attacco ci sono giocatori più strutturati, più adatti alla Serie A. Lo spazio per l’improvvisazione è pochissimo.
Juary non riesce a esprimersi. Gioca solo 6 partite di campionato e segna appena due gol, uno dei quali su rigore. Quando entra in campo, sembra un pesce fuor d’acqua.
A gennaio arriva la sentenza: lo cedono all’Ascoli. Non c’è spazio per lui in una squadra che cerca certezze. È una bocciatura. Ad Ascoli prova a ritrovarsi, ma la magia si è spezzata. Quella leggerezza che lo rendeva speciale sembra svanita. Finita la stagione, lascia l’Italia.
La notte di Vienna
Juary abbandona il Paese con la sensazione di essere stato frainteso. Non è riuscito a sfondare in una grande squadra, non ha trovato il suo spazio in un calcio che chiedeva rigore e disciplina. Sembra il tramonto della sua carriera, ma la vita – e il pallone – gli riservano un’altra possibilità.
Nel 1985 arriva la chiamata del Porto. Il calcio portoghese è meno rigido, più vicino alla sua natura istintiva. Qui Juary ritrova il sorriso, ritrova il pallone come lo aveva conosciuto da bambino. Gioca con più libertà, senza il peso di dover dimostrare ogni volta di essere all’altezza. E il Porto è una squadra in crescita, determinata a imporsi anche in Europa.
Nel 1987 si ritrova a giocare la finale di Coppa dei Campioni contro il Bayern Monaco. È il punto più alto della sua carriera. Parte dalla panchina. Il Bayern è avanti 1-0 e sembra controllare la partita. Poi accade l’imprevedibile. Al 77’ il Porto pareggia con Rabah Madjer, che segna con un colpo di tacco destinato alla storia. La partita è ribaltata, l’inerzia è cambiata.
Pochi minuti dopo, arriva il momento di Juary. Cross dalla sinistra, tocco morbido di Madjer a centro area, e lui è lì. Con un movimento rapido anticipa il difensore e butta la palla in rete. È il gol del 2-1. Il Porto è campione d’Europa. Juary, in quell’istante, fa quello che ha sempre fatto: corre verso la bandierina. Corre come quel ragazzino che inseguiva un pallone nei vicoli di São João de Meriti. Corre come se tutta la sua carriera, le sue sconfitte, il terremoto, l’Inter, lo avessero riportato esattamente lì, alla sua essenza più pura. La bandierina è ancora lì ad aspettarlo.
La fede
Dopo il trionfo con il Porto, Juary continua a giocare ancora per qualche anno, tra Portogallo e Messico. Ma la sua carriera sta per concludersi. Il calcio, che gli ha dato tutto, inizia a chiedergli il conto. Il fisico non è più lo stesso, le gambe non sono più svelte. Nel 1991, a poco più di 30 anni, decide di smettere. E per la prima volta nella sua vita, Juary deve capire chi è senza un pallone tra i piedi.
Torna in Brasile, ma non è il ritorno di un eroe. Il calcio brasiliano ha poca memoria per chi è andato via. Senza più riflettori, senza più partite da giocare, Juary si sente perso. È un momento difficile, in cui si interroga sul suo futuro. Ed è proprio in questo periodo che si avvicina alla religione. Trova conforto nella fede, diventa un predicatore evangelico, gira per il Paese parlando di Dio, aiutando giovani ragazzi a trovare la loro strada.
Ma il calcio non lo lascia mai davvero. Torna sui campi come allenatore delle giovanili, cercando di insegnare ai ragazzi non solo la tecnica, ma anche quello che ha imparato nella vita:
il coraggio di essere sé stessi, anche quando il mondo ti chiede di cambiare. Anche se la terra trema.
Vincenzo Corrado
Autore: redazione TuttoAvellino / Twitter: @tuttoavellinoit
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